di Marco Moroni
Premessa*
Dopo il sisma del 1997, per effetto di una sorta di processo di rimozione collettiva, eravamo tornati a vivere tranquilli. Come è stato detto nel novembre scorso in un convegno sullo sviluppo futuro delle Marche, organizzato ad Ancona dall’associazione “Le cento città”, vivevamo così tranquilli che non abbiamo neppure inserito il rischio sismico fra le azioni previste dalla Strategia europea 2020 per le aree interne. E invece, a venti anni di distanza, il mostro si è risvegliato.
Il terremoto che nel 2016 ha colpito in modo distruttivo le regioni dell’Italia centrale e in particolare l’entroterra delle Marche suggerisce alcune riflessioni. L’enorme perdita di vite umane, la gravità delle distruzioni, la vastità dell’area colpita, la presenza di città di medie dimensioni e la necessità di una rapida ricostruzione impongono di riconsiderare temi che negli ultimi anni abbiamo trascurato. È pienamente condivisibile quanto affermato dall’ex presidente della Regione Emilia Romagna, Vasco Errani, all’indomani della sua nomina a commissario per il terremoto. Errani si è impegnato a realizzare una ricostruzione che parta dall’identità dei territori e privilegi la vita dei paesi: puntando non a sradicare, ma a ricostruire le comunità nei Comuni colpiti.
Prendendo spunto da queste affermazioni propongo alcune riflessioni che ruotano attorno a cinque temi: 1) terremoti e storia; 2) le catastrofi e la gestione del territorio; 3) la valorizzazione delle aree interne; 4) la salvaguardia dei paesi; 5) la ricostruzione delle comunità.
Terremoti e storia
Viviamo in aree altamente sismiche, ma non avevamo previsto che potesse tornare il terremoto. Eppure la serie storica dei terremoti verificatisi negli ultimi tre secoli avrebbe potuto insegnarci qualcosa. Più di trent’anni fa, la rivista “Proposte e ricerche” aveva dedicato una giornata di studio al tema: “Geodinamica e storia sismica: le Marche”; erano gli anni in cui l’Istituto per la Geofisica della Litosfera del Consiglio Nazionale delle Ricerche di Milano aveva manifestato forte interesse per le ricerche sulla storia sismica del nostro Paese. Al convegno, svoltosi a Sant’Elpidio a Mare il 26 febbraio 1983, era intervenuto il sismologo Massimiliano Stucchi che aveva chiesto agli storici di studiare non solo “dove e quando si sono originati i terremoti”, ma anche “come si sono distribuiti i loro effetti sul territorio”; la conoscenza di queste “impronte” lasciate dai terremoti, aveva aggiunto Stucchi, “aiuta a valutare come le diverse aree rispondono ai terremoti e quindi consente agli insediamenti di rispondere meglio ai futuri terremoti”. Basti pensare – aveva concluso – che “la carta sismica ufficiale d’Italia, quella che stabilisce i Comuni nei quali le costruzioni vanno progettate secondo le norme sismiche, è fatta a tutt’oggi in buona parte sulla base dei terremoti avvenuti”.
In un bilancio storiografico apparso nel dicembre 2015, Emanuela Guidoboni ha ricordato che anche la rivista “Quaderni storici” aveva dedicato un fascicolo al tema “Terremoti e storia” (n. 60, 1985), avendo i sismologi preso consapevolezza che “gli studi sui terremoti storici consentivano nuove prospettive di analisi per la sicurezza e un nuovo approccio geologico, volto a identificare le aree sismogenetiche attive”. Quelle iniziative pionieristiche avevano dato avvio a numerose ricerche che hanno permesso all’Istituto Nazionale di Geofisica di giungere a “una nuova generazione di cataloghi storici e a una ridefinizione della sismicità del Paese”. Il risultato più rilevante di questa stagione di studi è stato il Catalogo dei forti terremoti in Italia, relativo a oltre mille eventi sismici verificatisi tra l’età antica e il Novecento. Più volte aggiornato tra 1995 e 2011 e reso disponibile anche on line ( http://emidius.mi.ingv.it/CPTI ), il Catalogo – ha concluso Guidoboni -viene considerato a livello internazionale “il più completo e ricco di informazioni per estensione cronologica e geografica”.
“Marca/Marche” pubblicherà nel prossimo numero un contributo di due studiosi marchigiani dedicato alla storia dei terremoti nella nostra regione. Intanto può essere interessante riportare la serie storica dei più forti terremoti che hanno colpito l’entroterra umbro-marchigiano; nella serie, ricostruita da Stucchi in occasione della giornata di studio di Sant’Elpidio a Mare, viene posta tra parentesi l’indicazione dell’epicentro del sisma: 1703 (Norcia); 1730 (Norcia); 1741 (Fabriano); 1751 (Gualdo Tadino); 1785 (Ternano); 1789 (Città di Castello); 1799 (Camerino); 1832 (Foligno); 1859 (Norcia); 1873 (Camerino); 1898 (Visso); 1917 (Citerna-Città di Castello); 1936 (Caldarola); 1943 (Appennino piceno); 1979 (Norcia); 1997 (Colfiorito-Sellano).
Catastrofi
Terremoti, alluvioni, eruzioni vulcaniche, uragani e altri disastri ci sono sempre stati. Eppure noi oggi abbiamo l’impressione che le catastrofi naturali siano aumentate e che la terra sia diventata più pericolosa che in passato. In realtà, secondo gli esperti del World Economic Forum, è aumentata semmai la vulnerabilità degli insediamenti umani presenti sul territorio. Dopo la seconda guerra mondiale, con il fortissimo incremento della popolazione si sono estese le aree agricole e industriali, si sono ampliate a dismisura le aree urbanizzate ed è cresciuto in modo incontrollato il consumo di suolo. Ovviamente negli ultimi decenni sta incidendo anche il cambiamento climatico, ma il fattore fondamentale all’origine di tante catastrofi sta nella nostra cattiva gestione del territorio. Il caso delle Marche è esemplare: il dissesto idrogeologico e la fortissima crescita delle frane non sono dovuti al cambiamento climatico, ma al nostro dissennato uso del suolo. Su questo tema mi permetto di rinviare a un saggio che ho pubblicato nel 2012 nella rivista “Proposte e ricerche”. Sta di fatto che oggi le Marche sono una delle regioni italiane con il maggior numero di frane in rapporto all’estensione del territorio.
Dobbiamo riconoscere che, come afferma Zygmunt Bauman, nonostante tutte le nostre scoperte scientifiche e le nostre impressionanti invenzioni tecnologiche, esistono limiti alla nostra capacità collettiva di garantirci il futuro, comune o individuale, contro i danni provocati dalle catastrofi naturali. Ma dobbiamo anche riconoscere che il terremoto ci ha trovati impreparati.
Dopo il terremoto del 24 agosto è stato detto che l’Italia sa gestire l’emergenza, ma non è capace di fare prevenzione. Il terremoto non si può prevedere, ma le aree ad alto rischio sismico si conoscono. Il Giappone ha insegnato al mondo che si possono costruire edifici capaci di resistere a terremoti di grande potenza. Serve però una cultura della prevenzione. Come hanno scritto Stefano Boeri, Joseph Grima e Pier Paolo Tamburelli, “la messa in sicurezza di mezza Italia ha bisogno di ricerca, di conoscenza e, più di tutto, di un progetto, anzi di tanti progetti”. Pubblici e privati. Per quello che riguarda il pubblico, lo Stato deve investire in prevenzione: incentivando fiscalmente la costruzione di edifici antisismici e rendendo sicuri gli edifici pubblici (scuole, ospedali ecc.). Questo vale non solo per i terremoti, ma per l’intera gestione del territorio. Investire in prevenzione significa risparmiare sui costi sociali ed economici delle catastrofi naturali. A loro volta, però, i cittadini devono assumere un atteggiamento diverso rispetto ai rischi ambientali: devono convincersi del valore e della necessità della prevenzione. E agire di conseguenza nelle proprie scelte concrete.
Aree interne
Le aree interne del nostro Paese sono estese sul 60 per cento del territorio nazionale, ma sono abitate da appena un quarto della popolazione italiana. È quanto avviene anche in altri Paesi europei, soprattutto nelle regioni montane. Il tema delle aree interne è stato oggetto di approfondimento nei Piani di sviluppo della Comunità europea. In particolare con la Strategia 2020 l’Europa ha messo al centro delle sue politiche proprio lo sviluppo territoriale e ha indicato tre indirizzi di crescita; il primo: passare da uno sviluppo esogeno e quantitativo a uno sviluppo endogeno e qualitativo; il secondo: puntare sulla coesione sociale, perché quella europea è un’economia sociale di mercato che si pone l’obiettivo di migliorare le condizioni di vita dei cittadini; il terzo: puntare a uno sviluppo sostenibile, valorizzando le aree interne.
In questa ottica, la vasta fascia appenninica, anziché area fragile e depressa, può divenire il volano di un nuovo modello di sviluppo. Nel passato l’Appennino è stato il luogo dove per secoli si è raggiunto uno sviluppo equilibrato dal punto di vista sociale e ambientale; si rileggano i saggi raccolti nel fascicolo che nel 2015 “Marca/Marche” ha dedicato al tema “L’Appennino marchigiano. Economia, tradizioni, prospettive di sviluppo”. Oggi, auspicando che si riesca quanto prima a superare i traumi prodotti dal terremoto, l’entroterra marchigiano può tornare ad esserlo se si affrontano due temi centrali per i territori montani e alto-collinari: la conservazione del capitale naturale e la realizzazione di uno sviluppo sostenibile basato non solo sul turismo, ma anche sull’agricoltura di montagna e sui servizi per l’ambiente.
Nell’ambito della Strategia europea 2020 il nostro Paese ha avviato la sua Strategia nazionale delle Aree interne. In tutta Italia sono state individuate 66 aree che coinvolgono circa mille Comuni e quasi due milioni di abitanti. La missione della Strategia nazionale è chiara: riuscire a fermare il calo demografico rafforzando quelli che vengono considerati i servizi essenziali di cittadinanza: istruzione scolastica, trasporti e mobilità, sanità e welfare locale. A questi obiettivi di base, si aggiungono poi le azioni di sviluppo locale che in tutte le regioni hanno come tema centrale il valore dell’agricoltura e del paesaggio.
Come ha rilevato Franco Arminio, “l’assunto della Strategia nazionale è che l’Italia interna non è un problema, ma una mancata opportunità per il Paese”. Da questa consapevolezza nascono le iniziative prese nell’ottica di rendere attrattiva quella parte d’Italia che in genere viene considerata più marginale. Sono iniziative che dovrebbero muovere da un’ulteriore convinzione di fondo: i nostri paesi sono la nostra ricchezza.
Paesi
Proprio le distruzioni che hanno deturpato il volto dei borghi e delle città dell’entroterra marchigiano devono farci riflettere. Dobbiamo essere consapevoli della ricchezza dei nostri paesi. I piccoli centri urbani, posti nelle aree interne, non sono i luoghi della penuria, come spesso noi siamo portati a pensare, ma sono i luoghi della ricchezza: ricchezza di rapporti interpersonali, ricchezza di biodiversità, ricchezza di sociodiversità, ricchezza di conoscenze, ricchezza di competenze, ricchezza di cultura, spesso anche ricchezza d’arte.
Come ha scritto il sindaco di Matelica, Alessandro Delpriori, in una lettera aperta inviata al ministro Franceschini, nell’area colpita dal terremoto “ogni borgo ha la sua pieve, il suo ciclo di affreschi, il suo piccolo museo, il suo archivio e, soprattutto nelle Marche, il suo teatro storico. È l’esempio dell’Italia più vera, quella in cui la storia vive ancora e si respira, dove la gente rimane ancorata ai posti in cui è vissuta. La storia e l’arte qui sono l’identità stessa della popolazione”.
Dobbiamo allora ripartire dai paesi. Questo significa innanzitutto evitare che per effetto del terremoto i paesi siano svuotati della loro identità e trasformati in “non-luoghi”, secondo la nota espressione di Marc Augé, con case riprodotte in serie e con spazi pensati a prescindere dalle relazioni sociali. Se un paese diventa un “non-luogo” – ha scritto Rosella De Leonibus sul quindicinale “Rocca” – i suoi spazi disincentivano la socialità. Invece, il paese di cui si sono presi cura i suoi abitanti torna ad essere un “luogo”, cioè una realtà alla quale i suoi abitanti si sentono di appartenere; i suoi sono spazi con una identità storica e spazi nei quali “le relazioni sono tessuto vivo”.
Ripartire dai paesi con l’obiettivo di evitare il rischio della desertificazione significa operare per un ritorno ai piccoli centri urbani e alla campagna, ridando fiducia a chi vi abita e valorizzando le tante buone pratiche che in essi si sono mantenute o che si sono diffuse negli ultimi anni. Scegliere di ripartire dai paesi e dalla campagna, non solo in chiave emergenziale ma con una grande operazione di rilancio dei territori colpiti dal sisma, può significare molte cose: ad esempio: favorire l’accesso alla terra da parte dei giovani; concedere incentivi fiscali a chi vi risiede stabilmente; ridare prestigio ai contadini, riconoscendoli come custodi del territorio; salvaguardare gli antichi mestieri con le loro competenze; valorizzare gli artigiani del cibo; più in generale riscoprire la storia e l’identità dei nostri luoghi. Franco Arminio, a sua volta, aggiunge che dobbiamo “intrecciare politica e poesia, economia e cultura, scrupolo e utopia”. Per realizzare almeno in parte tutto questo, servono non solo politiche adeguate, ma anche la partecipazione e l’iniziativa delle forze vive del territorio.
Comunità
Di fronte a prove così difficili occorre tornare a sentirsi un popolo. È difficile dare una definizione chiara e convincente di che cosa sia il popolo. In un recente convegno è stato detto che “un popolo è tale quando si riconosce in una storia, una cultura, un nucleo di valori condivisi e una serie di istituzioni di riferimento”. Essere popolo significa essere partecipi di un racconto comune. Un popolo si sente unito dentro una storia se è capace di fare memoria, di abitare in modo consapevole il presente e di avere un progetto comune per il proprio futuro. Un progetto comune inizia a maturare dentro una cultura civica che valorizza la realtà municipale in quanto è la più vicina ai cittadini. Ma poi promuove la partecipazione alla vita delle istituzioni, perché un popolo deve sentirsi dentro un quadro istituzionale più ampio e riconoscersi in valori condivisi: quei valori che in ogni Paese sono sanciti dalla Carta costituzionale.
Con riferimento ai paesi cancellati dal sisma, Aldo Bonomi ha scritto che “identità e voglia di comunità non sono solo il ricostruire dov’era e com’era per non perdere storia e memoria”. Sono innanzitutto capacità di resistere alla distruzione provocata dal terremoto e, per riprendere le parole di Tonio Dell’Olio, si basano sulla “solidarietà intesa come prossimità, presenza silenziosa e preziosa, scommessa di ricostruzione integrale, fraternità vissuta”. Riattivare la vita comunitaria è allora il primo passo da compiere per realizzare il “nuovo umanesimo delle montagne” di cui parla Franco Arminio. In una realtà come le Marche, caso esemplare di quella Terza Italia che è riuscita a conciliare in modo equilibrato economia e società, è essenziale poi non far disperdere il tessuto economico-sociale che è stato alla base dello sviluppo regionale.
Come in tutti i luoghi, anche nelle aree interne l’identità del territorio è un processo in continua trasformazione. Si tratta allora di coinvolgere gli attori di questa trasformazione: le istituzioni locali e regionali, i parchi, i Gal, le forze sociali, le imprese. Nella fase della ricostruzione servono anche dei luoghi fisici dove ridare vita alla comunità: servono cioè centri di comunità. Nei luoghi dove tutto è stato distrutto, nelle tendopoli o nei nuovi insediamenti provvisori che verranno costruiti in sostituzione delle tendopoli, servono centri di comunità che siano luoghi di aggregazione, luoghi di incontro, luoghi di confronto, luoghi di costruzione di un nuovo domani.
Alcune esperienze positive non mancano. Come hanno scritto Stefano Boeri, Joseph Grima e Pier Paolo Tamburelli, le ricostruzioni, se i progetti vengono condivisi con i cittadini, possono agire come elemento generatore di nuova vita sociale. Ma occorre coinvolgere le comunità locali; oggi, invece, si ha spesso l’impressione che l’eccessiva burocratizzazione della Protezione civile impedisca ogni forma di partecipazione dei cittadini. A chi ha dimestichezza con la storia, i campi degli sfollati realizzati nei campeggi lungo la costa dopo il 30 ottobre ricordano troppo da vicino i Centri di raccolta dei profughi istriani e dalmati organizzati, anche nelle Marche, nell’immediato secondo dopoguerra. E allora appaiono sicuramente condivisibili alcune delle indicazioni contenute nel Decalogo del terremotato e della terremotata consapevolediffuso la sera del 24 agosto dal Collettivo 3,32 de L’Aquila: “non fatevi rinchiudere in campi recintati con la scusa di essere protetti”; e ancora: “non fatevi raccontare dai media quello che vi succede, ma siate protagonisti dell’informazione”; infine: “pretendete di partecipare da subito ad ogni scelta sul vostro futuro”.
Percorsi di sviluppo
Come ho già scritto nel fascicolo di “Marca/Marche” dedicato all’Appennino marchigiano, le comunità dell’entroterra nel corso della loro storia sono state spesso costrette a integrare le risorse locali facendo ricorso ad altre risorse e rafforzando i rapporti con le aree contermini. Negli ultimi decenni il turismo è riuscito a configurarsi come la principale (ma certo non l’unica) modalità di integrazione, in grado di promuovere nuovi equilibri. Nella nostra regione vi sono stati esempi eccellenti di valorizzazione a fini turistici delle risorse paesaggistiche e delle bellezze artistiche dei nostri paesi.
Oggi, occorre evitare che, per effetto del terremoto, accanto alle case crollino le prospettive di sviluppo costruite faticosamente negli ultimi decenni. È ovvio che nell’immediato la presenza dei turisti abbia subito un vero e proprio tonfo, ma la prospettiva turistica mantiene tutta la sua validità. Al turismo vanno affiancati però altri percorsi di sviluppo, incentrati sulle molteplici risorse ambientali in grado di sostenere forme di “economia verde” e sulle innumerevoli produzioni di qualità che caratterizzano tutto l’entroterra umbro-marchigiano.
Ancora una volta, come già nel 1997, l’imperativo è la ricostruzione, ma ricostruire non basta se non si riesce a evitare lo spopolamento di quelle zone e se non si riesce a far rivivere quei paesi. Insieme con la ricostruzione, da realizzare rispettando rigorosamente i criteri antisismici, servono politiche per rilanciare l’economia e la vita di tutto l’entroterra: i fondi europei a sostegno delle aree interne ci sono, bisogna utilizzarli con intelligenza e lungimiranza. Con un obiettivo prioritario: evitare l’esodo e favorire il rientro degli sfollati riducendo al minimo indispensabile la loro permanenza nei centri della costa adriatica.
Insomma, per il futuro serve un grande piano strategico incentrato sul rilancio economico, sul riassetto del territorio e sulla ricostruzione del tessuto sociale; servono politiche che siano in grado di bloccare la fuga dalle aree colpite dal sisma; servono politiche capaci di incentivare l’insediamento stabile, specialmente di giovani coppie; servono politiche che valorizzino le ricchezze paesaggistiche, culturali e artistiche dei nostri paesi . Solo così si potrà far rinascere le comunità distrutte, ricostruire rapporti solidali fra le popolazioni terremotate e ridare un futuro ai paesi dell’entroterra marchigiano.
Riferimenti bibliografici
Franco Arminio, Salvate l’Italia dei paesi, in “L’Espresso”, 11 settembre 2016.
Franco Arminio, Per un nuovo umanesimo delle montagne, in “Il manifesto”, 15 novembre 2016
Zygmunt Bauman, L’uomo schiacciato dai limiti, in “L’Espresso”, 6 novembre 2016.
Stefano Boeri, Joseph Grima e Pier Paolo Tamburini, Un grande progetto per il Paese dopo il sisma, in “La Repubblica”, 23 settembre 2016.
Aldo Bonomi, Il post terremoto e le radici autentiche della nuova identità, in “Il Sole 24 ore”, 11 settembre 2016.
Augusto Ciuffetti, Il Museo storico del territorio e il Museo della civiltà contadina “Silvio Centioni” di Pievebovigliana (Macerata): la conservazione e la ricerca, in “Marca/Marche”, n. 7, 2016.
Collettivo 3,32 de L’Aquila, Decalogo del terremotato e della terremotata consapevole, citato in Rossella De Leonibus, Paura, sgomento, dolore, in “Rocca”, 15 settembre 2016.
Tonio Dell’Olio, La risposta della resilienza, in “Rocca”, 15 settembre 2016.
Rosella De Leonibus, Paura, sgomento, dolore, in “Rocca”, 15 settembre 2016.
Alessandro Delpriori, Caro ministro, l’arte è la nostra identità, non cancelliamola, in “La Repubblica”, 29 ottobre 2016.
Marco Moroni, Trasformazioni del paesaggio e crisi ambientali nella storia delle Marche, in “Proposte e ricerche”, n. 68, 2012.
Marco Moroni, Continuità e cesure nella storia dell’Appennino marchigiano, in “Marca/Marche”, n. 4, 2015.
Emanuela Ottoboni, Terremoti e storia trenta anni dopo, in “Quaderni storici”, n. 150, 2015.
Silvia Peppoloni, La terra uccide, ma possiamo limitare i danni, in “La lettura”, supplemento del “Corriere della Sera”, 11 settembre 2016.
Massimiliano Stucchi, Terremoti e ricerca storica, in “Proposte e ricerche”, n. 13, 1984.
* In questo contributo riprendo alcune parti della scheda che ho elaborato nell’ottobre 2016 per il Centro Studi delle Acli marchigiane.